di Tiziana Franceschini
Guardate dal finestrino dell’altro.
Cercate di vedere il mondo come lo vede il vostro paziente.
(Irvin Yalom)
Abbiamo imparato a volare come gli uccelli, a nuotare come i pesci,
ma non abbiamo ancora imparato la semplice arte di vivere insieme come fratelli.
(Martin Luther King)
L’incontro con Giulio
Giulio (nome di fantasia) viene per la prima volta nel mio studio a Marzo del 2021 perchè l’ansia e i disturbi del sonno lo stanno affaticando. In effetti, appare stanco e anche un pò agitato, ma è un cinquantacinquenne di grande cultura, dotato di senso dell’ironia, con cui è piacevole parlare. Già dai primi colloqui, però, mi è chiaro che il suo pensiero tende alla ruminazione mentale attorno al tema della pandemia. Certo, non è una cosa insolita, dato che la maggior parte dei miei pazienti in questo periodo porta in terapia paure, riflessioni, considerazioni che hanno a che fare con l’emergenza sanitaria, ma in lui c’è un sottofondo paranoico che mi preoccupa. Giulio mi racconta delle cose un pò ingenue, quel genere di complottismo di cui è pieno il web: ha una grande paura dei vaccini e crede che i “sieri sperimentali” (lui li chiama così) non siano sicuri, ma rappresentino piuttosto un mezzo con cui il “sistema” vuole asservirci e controllarci tutti. Descrive se stesso come un diverso rispetto ai valori sociali dominanti, sente di fare parte di una non meglio specificata minoranza e percepisce un senso di costrizione sociale, che con la pandemia si è accentuato. Mi colpisce il valore che dà al fatto di non vaccinarsi, come se attorno a questa scelta ruotasse qualcosa su cui si basa la sua intera personalità.
Quando lo ascolto, non so esattamente cosa pensare. Se mi identifico con lui e prendo per vero ciò che dice, mi sale una grande ansia per un futuro distopico. Se invece lo guardo con maggiore distacco, mi sembra un caso grave e mi preoccupo per la sua salute mentale. É rassicurante ricordare che stiamo tutti vivendo un momento di crisi, un trauma collettivo rispetto al quale ognuno mette in atto le proprie difese. Mi aiuta anche la fiducia nel fatto che la relazione terapeutica richiede tempo, il tempo necessario affinchè si crei quel legame da cuore a cuore che rende possibile dotare di senso quello che ci succede nella vita e portare sollievo all’animo.
Relazione terapeutica: mancanza di giudizio e fiducia
Passano così i primi mesi di terapia, in cui aiuto Giulio a confrontarsi con le sue paure e a stare nei limiti pratici dettati dalla pandemia, senza rinunciare agli interessi personali e alla vita sociale. Comprendo sempre di più che, per ascoltarlo veramente, devo rinunciare alle mie convinzioni, a quello in cui vorrei credere per sentirmi rassicurata, un processo necessario con tutti i pazienti, ma reso più complesso dalla pandemia: Giulio mi parla di qualcosa che riguarda anche me e che spaventa anche me. La relazione terapeutica si basa su questa mancanza di giudizio, che consente all’altro di sentirsi accolto per quello che è. Parliamo di un atteggiamento di accettazione amorevole e non giudicante, frutto di un lavoro interiore del terapeuta, un processo non controllabile razionalmente, che avviene quando ci avviciniamo all’altro umanamente.
La mia vicinanza permette a Giulio di sviluppare fiducia nella relazione terapeutica e di aprirsi per raccontarmi di sé. La sua storia spiega perché dà così importanza al fatto di non vaccinarsi: circa 15 anni fa Giulio ha avuto una brutta esperienza, un episodio di mala sanità, a causa del quale ha rischiato di morire durante un ricovero ospedaliero. E’ stato sicuramente un evento molto traumatico, ma il mio paziente lo ha usato per cambiare. La vicinanza con la morte gli ha fatto sentire la preziosità della vita, aiutandolo a liberarsi di tutta una serie di identificazioni sociali e di condizionamenti pratici che lo limitavano. Ha avuto la forza di lasciare un lavoro che non amava e la determinazione necessaria a ridurre i suoi bisogni economici in modo da dedicarsi all’artigianato, come desiderava fare da quando era ragazzo. Quando gli chiedo cosa ha imparato da questa esperienza, risponde che ha capito che voleva vivere e che poteva prendersi cura attivamente di sé e del proprio benessere. Nell’ascoltare la sua storia, sento che gli voglio un gran bene, a conferma del fatto che lo spazio sicuro della terapia ha permesso al rapporto tra di noi di crescere e mettere radici.
Ma nel frattempo il mondo fuori bussa rumorosamente alla nostra porta: la vita di Giulio cambia radicalmente a causa dei provvedimenti del governo italiano (il Greenpass ad Agosto 2021, il Super Greenpass a Dicembre 2021, l’obbligo vaccinale per chi ha più di cinquant’anni a Gennaio 2022). L’ambiente conferma il peggio delle sue previsioni, rendendo reale e concreto il senso di persecuzione che animava le sue fantasie. Ora, quando Giulio mi dice che viene trattato come un reietto, emarginato e discriminato, che gli viene impedito di avere una vita sociale, di spostarsi liberamente sul territorio, di lavorare e che, anche se lui rinuncia a tutto questo, gli viene comunque imposto l’obbligo di un trattamento sanitario che lui non vuole assumere…quando Giulio mi dice tutte queste cose, io mi vergogno e mi dispiace tanto non potergli dire che sono solo fantasie.
Controtransfert e associazioni cliniche: l’abuso
Di Giulio ciò che mi ciò colpisce di più (in termini tecnici si chiama controtransfert) è la sua sensazione di non essere rispettato come persona. Non poter decidere liberamente del suo corpo e del modo in cui prendersi cura della propria salute gli procura un senso di violazione profondo, che mi raggiunge emotivamente come un colpo al cuore e mi ricorda quello che provavo quando lavoravo con i bambini abusati. Per seguire il filo della mia associazione, è bene conoscere il fenomeno dell’abuso.
Quando parliamo di abuso, spesso pensiamo alla violenza sessuale e al maltrattamento fisico. Molto più difficile da individuare è la violenza psicologica, definibile come una forma di controllo e di manipolazione che si serve di insulti, sevizie morali, ricatti, minacce, menzogne e intimidazioni per assoggettare l’altro e/o obbligarlo ad agire contro la propria volontà. Spesso, la violenza psicologica è diretta verso una persona che è in condizioni di svantaggio e di debolezza. L’abusante si sente superiore alla vittima, di cui ha una rappresentazione svalutante che può basarsi sui pregiudizi sociali (ad esempio, quelli legati al genere sessuale o alla razza). Il comportamento dell’abusante è finalizzato a dimostrare la sua superiorità e il suo potere sulla vittima, imponendogli la propria visione del mondo come unica verità possibile.
Relazioni di questo tipo hanno un effetto traumatico, che risulta amplificato quando la violenza psicologica è esercitata sui bambini dai propri genitori (in psicologia si dice caregiver, cioè chi fornisce le cure): critiche e rimproveri quotidiani ledono l’immagine che il bambino ha di sé e del suo valore personale, ne compromettono la capacità decisionale e l’autonomia, rendendolo sempre più controllabile e manipolabile. Il bambino vive in uno stato di perenne pericolo, con la paura di fare qualcosa di sbagliato, cresce sentendosi non amato e non accettato per quello che è, perché il suo valore dipende dalla soddisfazione dei desideri dell’adulto.
Ancora meno conosciuta è un’altra forma di abuso, chiamata patologia delle cure[1], in cui le cure fornite possono essere carenti (incuria), inadeguate (discuria) o eccessive (ipercura). Nell’ipercura, il rapporto con il genitore è caratterizzato dall’eccessiva attenzione per lo stato di salute del bambino. Tra le forme di ipercura esiste un tipo di abuso chiamato Sindrome di Münchausen per procura. La Sindrome di Münchausen è un disturbo psichiatrico che induce a lamentare, simulare o auto indursi sintomi e malattie gravi, in modo da essere al centro dell’attenzione. Nella versione “per procura” l’abuso viene agito dal genitore, che simula o procura una malattia nel bambino, mentendo sulla storia clinica, riferendo sintomi inesistenti, falsificando referti, alterando campioni di feci, urine e sangue, somministrando sostanze che inducono sintomi. Il risultato è che il bambino effettua molte visite mediche con professionisti diversi, viene sottoposto ad accertamenti clinici inutili, a cure farmacologiche e a trattamenti inopportuni. Il genitore riferisce ai medici della supposta malattia con distacco emotivo, sicurezza e competenza, ma sono presenti delle contraddizioni. La voglia di attirare l’attenzione degli altri sulla precaria salute del bambino induce a parlarne anche sui social tramite foto, raccolte di fondi o creazione di associazioni inerenti la malattia. Un segno clinico che può destare sospetti è che i sintomi del bambino tendono a scomparire con la lontananza dal genitore.
Un elemento da sottolineare è che questo tipo di abuso viene perpetuato sui minori, ma anche sugli anziani e sui disabili, che, dipendendo dai caregiver per la propria sopravvivenza, sono impossibilitati a difendersi e a rivendicare il proprio diritto alla salute. La dipendenza, insita nel legame di attaccamento genitori-figli e fisiologica in ogni relazione di cura, diventa un’arma nelle mani di chi detiene il potere.
L’abuso ha un forte impatto sulla psiche, perché lede il senso di fiducia negli altri e in se stessi, soprattutto quando gli abusanti sono proprio i caregiver, cioè coloro che avrebbero il compito di proteggere, supportare e fornire cure alle persone di cui abusano. Trasversalmente alle diverse forme di abuso troviamo che il bambino non viene visto per quello che è, ma i suoi bisogni vengono misconosciuti, distorti e manipolati in funzione di quelli dell’abusante, che sfrutta la sua posizione dominante per imporsi. L’ipercura e la Sindrome di Münchausen per procura aggiungono un’aggravante: il bambino perde la capacità di distinguere tra le proprie percezioni fisiche e quelle indotte dal genitore. L’unico modo per ottenere affetto e attenzioni dall’adulto è identificarsi con l’immagine di un malato bisognoso di cure, con una distorsione del senso di sé e dell’immagine corporea che ha effetti devastanti per il benessere psicofisico.
Giulio porta in terapia un tipo di sofferenza frutto di un abuso. É la sua personale sofferenza, ma anche quella di circa sei milioni di italiani che a cavallo tra il 2021 e il 2022 perdono diritti umani e sociali fondamentali. Le misure adottate dal governo italiano creano una minoranza di reietti, dispregiativamente chiamati “no-vax”, su cui si accaniscono per primi i politici e i giornalisti, additandoli come la causa principale del fallimento delle politiche di contenimento della pandemia. Il clima di indifferenza e di odio, le profonde fratture generate in ambito familiare e sociale fanno calare sul nostro paese un’ombra nera, che oscura l’animo e nuoce alla società tutta.
La teoria dell’attaccamento in ambito sociale: paura e dipendenza
In che modo la mia associazione clinica con il fenomeno dell’abuso ci può aiutare a riflettere sulla situazione sociale italiana? L’abuso familiare è una distorsione del rapporto di cura che può fornirci spunti per leggere i fenomeni sociali, se ragioniamo in base al “come se”: immaginiamo il rapporto tra stato e cittadini come se fosse un legame di attaccamento, in cui lo stato fa le veci del genitore che si prende cura dei cittadini (vedi meglio nel video Attaccamento e società. Un legame di attaccamento sano si basa sulla fiducia reciproca, genera una buona qualità di vita e un clima sociale disteso, perché i cittadini si sentono sicuri e sanno di poter contare su risorse, servizi e tutele a loro disposizione in caso di necessità. Come accade nelle famiglie, così nella società emergenze e crisi sono la cartina di tornasole della salute del sistema. Quindi, grazie alla pandemia possiamo chiederci se il nostro legame di attaccamento sociale è sicuro, cioè se il rapporto con lo stato è una fonte di sicurezza e di benessere per i cittadini italiani.
Se lo domandiamo a Giulio, ne riceviamo l’immagine di uno stato che si comporta come un genitore autoritario, il quale impone la propria visione del mondo usando le maniere forti, colpendo duramente chi non si adegua. Il benessere è assicurato sì, ma non a tutti, solo a chi si conforma alle norme. Le misure adottate dall’inizio della pandemia (lockdown, coprifuoco, multe, obblighi, greenpass), il modo in cui vengono imposte, il linguaggio bellico usato per comunicarle alla popolazione trasmettono fermezza. Una tale fermezza trova giustificazione in una rappresentazione dei cittadini italiani come tanti bambini piccoli, egocentrici, incapaci di autodeterminarsi, irresponsabili e un po’ furbetti, che è bene guidare con determinazione per salvaguardare la salute collettiva.
Ricatti, minacce e ritorsioni sono il linguaggio tipico della violenza psicologica. La fermezza e la determinazione usate per imporre le scelte politiche sono possibili da una posizione di potere, che si basa sulla dipendenza dei cittadini. Nella nostra società il patto sociale tra il popolo e lo stato è caratterizzato da una forma esasperata di dipendenza dei cittadini, che è, come abbiamo visto, condizione predisponente l’abuso di potere. Lo stato può imporci qualunque cosa, anche in ambito sanitario, perché siamo legati ad esso da una serie infinita di vincoli economici, che condizionano la nostra libertà, rendendoci manipolabili e ricattabili. Siamo come bambini impossibilitati a crescere. Anzi, crescendo cresce con noi il peso di questi vincoli e la portata della nostra dipendenza. Lo stile di vita capitalistico, il progredire del progresso tecnologico, l’impoverimento delle abilità manuali e delle competenze necessarie alla sopravvivenza ci rendono dipendenti da innumerevoli servizi e beni materiali: una casa in cui vivere, i soldi, il cibo da comprare, i soldi, una famiglia da mantenere, tanti soldi, una macchina per spostarci, soldoni, mobili, elettrodomestici, vestiti, soldi, soldi, soldi. Per vivere ci vogliono i soldi, per fare i soldi dobbiamo lavorare, senza lavorare non sopravviviamo. Accettando questi limiti e una serie infinita di compromessi, riusciamo per lo più a costruire una vita da benestanti, che gran parte del pianeta ci invidia.
Poi, arriva la pandemia, che ci fa sentire, forse per la prima volta, il rischio di perdere tutto. Attanagliati dalla paura della malattia e della morte, confusi dall’incertezza per il futuro, abbiamo un disperato bisogno di uno stato che ci dica con fermezza cosa fare e siamo disposti a fare qualsiasi cosa per mantenere la salute, il lavoro, le abitudini, lo stile di vita, il benessere. L’educazione autoritaria si basa sulla paura: il bambino non obbedisce perché ha fiducia nel genitore, ma obbedisce perché sa che altrimenti sarebbe criticato, rimproverato, isolato, punito, menato. La dipendenza genera obbedienza, ma l’obbedienza basata sulla paura alimenta la paura. Dicendo di sì a ciò che il governo ci impone, apparentemente manteniamo la nostra vita “come era prima”, possiamo anche fare finta che vada tutto ok, ma siamo sempre più dipendenti, impauriti e manipolabili.
La dipendenza si manifesta con chiarezza nel rapporto di cura tra lo stato e i cittadini. La gestione della pandemia ha reso esplicito il principio per cui è lo stato che decide della salute dei cittadini, imponendo determinati trattamenti e non altri. Una tale operazione è possibile sulla base di una specifica rappresentazione della salute, che è radicata e precedente rispetto alla pandemia. La salute si fonda sulla deresponsabilizzazione di noi cittadini, che facciamo con il medico un patto all’insegna della delega totale: non conoscendo noi stessi, non sapendo cosa ci succede, ci affidiamo totalmente al medico. Estraniati dal corpo e incapaci ascoltare cosa fa bene all’animo nostro, diventiamo sempre più dipendenti dalle sicurezze che vengono da fuori: il parere del medico, ma anche le consuetudini sociali, i ruoli lavorativi, il possesso di beni materiali e così via. La dipendenza alimenta la paura.
La rappresentazione sociale della salute
Da Marzo 2020, momento in cui l’Oms dichiara lo stato di pandemia, la paura è con noi. Probabilmente, all’inizio dell’emergenza la paura è stata utile a tutti noi per realizzare la gravità della situazione. Oggi però, a distanza di due anni, è molto rischioso a livello psicologico mantenere un livello di allarme sociale così elevato come quello veicolato da tv, radio e giornali, che parlano esclusivamente di malati, contagiati, ricoverati e morti. La gestione della pandemia fa sì che i cittadini italiani vivano in uno stato perenne di pericolo, caratteristica tipica dell’abuso familiare. Il corpo risponde al pericolo producendo gli ormoni dello stress, che alla lunga indeboliscono il sistema immunitario e affaticano il sistema nervoso, predisponendo alle malattie, all’ansia e alla depressione. Nota bene: lo stress qui non è solo quello del mio paziente Giulio, ma quello di tutti noi! In fondo, dobbiamo ammettere che non è piacevole esporre un lasciapassare per entrare al ristorante e per andare a lavorare, perché ogni volta ci ricordiamo che viviamo in stato di emergenza.
La paura del covid è enfatizzata dall’informazione e influenzata da un evento nell’evento: la figura dell’asintomatico, che ci insegna che possiamo risultare infetti dal virus senza che dei sintomi ci avvertano della nostra positività. Questo vuol dire che siamo tutti potenzialmente malati e contagiosi. Se prima potevamo pensare di essere sani fino a che non dimostravamo il contrario, ora invece siamo tutti malati se non diamo prova di essere sani.
Che conseguenze ha questo fenomeno? A livello psicologico crea una profonda incertezza sulla nostra salute, rispetto alla quale non possiamo più auto rassicurarci. Non possiamo più chiederci come ci sentiamo e tranquillizzarci quando il corpo risponde ”Sto bene”, perché abbiamo bisogno che un test certifichi la nostra sanità. E visto che è inutile ascoltare il corpo, tanto vale non ascoltarlo più: il distacco dal corpo genera una profonda desensibilizzazione e una frattura incolmabile tra noi e il sentire, che per Natura è il nostro punto di riferimento più vero. Parallelamente, il mondo si popola di contagiosi: il mio amico, i miei familiari, i miei colleghi, i bambini sono tutti potenziali fonti di contagio. La risposta più facile a questa paura diffusa è l’isolamento, che riduce la possibilità di contagio, ma allo stesso tempo ci toglie la nostra risorsa più grande: i legami umani.
La crisi in chiave sociale
La dipendenza e l’abitudine alla delega ci deresponsabilizzano, predisponendoci ad accettare passivamente obblighi, vincoli e consuetudini sociali che ritagliano per noi un’esistenza caratterizzata da una bassissima qualità di vita. Genitori, insegnanti, datori di lavoro, tutti ci insegnano a dire di sì. Ci adeguiamo a quello che ci viene socialmente proposto, per vivere una vita all’insegna del “É così che vanno le cose”, in cui c’è poco spazio per la bellezza e la piacevolezza. Adeguarci ci rassicura, fare come la maggioranza ci fa sentire nel giusto, ma alla lunga la passività e la mancanza del confronto attivo ottundono la coscienza e restringono le potenzialità dell’intelligenza umana, che generazioni e generazioni di uomini prima di noi hanno contribuito a nutrire.
La reazione della maggioranza dei cittadini italiani alle misure discriminatorie del governo, l’assordante silenzio, la sprezzante indifferenza, la complicità rabbiosa, l’ostinato rifiuto a riconoscere la violazione dei diritti umani ci fanno capire inequivocabilmente che viviamo in una società in cui non siamo abituati a riflettere sugli eventi. Non è solo una questione di intelligenza, ma piuttosto di coscienza, perché la coscienza ha a che fare anche con i valori umani e con l’empatia verso l’altro.
La verità è che la pandemia arriva in un momento storico di grande crisi, perché la nostra società è malata da tempo. Sappiamo benissimo che è il sistema sociale che non va, ma ci sono talmente tante cose da tenere in piedi che preferiamo non prenderne atto. Per non cambiare, spostiamo i termini della questione: non è la società ad essere malata, ma il singolo individuo. Siamo tutti malati a vita, da curare costantemente, dipendenti dal parere dei medici, dalle analisi e da una quantità incredibile di farmaci, farmaci per la pressione, per il cuore, per la circolazione, per il diabete, per il reflusso, per il mal di schiena, farmaci per l’ansia e la depressione, psicofarmaci per i bambini e per i cani (eggià, esistono gli psicofarmaci per gli animali domestici!). Chiediamo ai farmaci di curare il corpo, senza capire che è l’animo nostro a lamentarsi per la mancanza di amore.
L’ipermedicalizzazione è talmente pervasiva da farci chiedere se non siamo in presenza di una tendenza sociale all’ipercura. La tecnologia e la medicina sono le nostre nuove divinità, che preghiamo devotamente affichè rimandino il più in là possibile l’incontro con la morte, che è a tutti gli effetti il tabù dei tabù. La così detta salute rispecchia una visione quantitativa della vita, che dà valore alla durata (tanto è meglio) piuttosto che alla qualità.
Desensibilizzazione, deresponsabilizzazione e delega alla medicina di stato diventano una potenziale bomba se si uniscono alla privatizzazione della sanità pubblica: gli interessi economici di pochi rischiano di prevalere sul bene pubblico. Sono queste le condizioni perfette per un abuso, che si realizza quando chi ha il potere sfrutta a suo vantaggio la dipendenza e la debolezza dei cittadini, negandone e manipolandone i bisogni in funzione dei propri interessi.
Trauma, stress e difese collettive
Insomma, ne abbiamo di motivi per essere preoccupati e stressati! La psicologia ci insegna che lo stress diventa dannoso quando è cronico e quotidiano, come succede in ambiente domestico, dove gli abusanti sono i genitori che dovrebbero prendersi cura dei bambini. Noi siamo in una condizione simile, come è evidente dagli effetti psicologici derivanti dal modo in cui la pandemia è stata gestita. L’Oms nel Maggio 2020 ha dichiarato che siamo a rischio di una pandemia di patologie mentali, come ci possono confermare tutti i neuropsichiatri e gli psicologi che lavorano nella clinica con gli adulti e con i minori, come possiamo comprendere noi stessi dal clima sociale di forte tensione.
La pandemia costituisce un trauma collettivo e noi siamo tutti sotto shock, in preda all’ansia e alla confusione mentale ed emotiva che caratterizza il disturbo post traumatico da stress. E’ bene sapere che la psicologia definisce traumatico un evento non in base alla pericolosità dell’evento in sé (un qualcosa che mette a repentaglio la sopravvivenza), ma in riferimento alle risorse con cui l’evento viene elaborato, alle strategie e alle difese usate per fare fronte alle emozioni negative (incertezza, ansia, paura, senso di colpa, rabbia, impotenza…). Le misure adottate dal governo hanno un aspetto pratico, ma anche un aspetto psicologico, perché suggeriscono implicitamente ai cittadini in che modo fare fronte alla paura. La psicologia ci aiuta a leggere queste misure, perché le difese sono le stesse a livello individuale e sociale.
Le difese sono strategie che seguono due possibili traiettorie: verso l’interno (difese introversive) e verso l’esterno (difese estroversive), con tutto un mondo nel mezzo.
Nel primo caso abbiamo la depressione e l’isolamento, che ci proteggono concretamente dalla paura del contagio. Socialmente questa è stata la risposta dominante (vedi lockdown e coprifuoco), coerentemente con una visione della vita sempre più digitalizzata e virtuale. La pandemia ci ha fatto prendere dimestichezza con le videochiamate, lo smartworking, i corsi online, la dad, che ci proteggono dal contagio, ma ci allontanano dal confronto diretto con l’altro. La digitalizzazione è il grande business dei nostri tempi, però molte persone tuttora faticano ad uscire di casa e tra gli adolescenti questo fenomeno sta diventando preoccupante.
Se, invece, vogliamo difenderci dalla paura in modo estroversivo la convertiamo in rabbia, un’emozione che può essere facilmente smaltita dirigendola verso un capro espiatorio. Questa è la funzione sociale di Giulio e dei “no-vax”, che vengono offerti in pasto al bisogno della collettività di sfogare la rabbia su una categoria di colpevoli designati, rei di ricordare alle persone che la paura vince sull’uomo quando l’uomo rinuncia alla sua libertà.
E ancora Giulio
Devo ringraziare Giulio, perché mi fatto capire meglio quello che sta succedendo attorno a noi. Ora per me è impossibile rimanere indifferente quando ho notizia delle discriminazioni sempre più pesanti che lo stato impone, perché vedo le persone dietro l’etichetta. Giulio mi insegna molte cose sulla pandemia, perché lui ha dovuto imparare tanto per sopravvivere. Gli sono vicino mentre riflette sui suoi attaccamenti: ogni nuova restrizione gli toglie un pezzetto di vita, a cui lui rinuncia cercando la libertà nel limite.
I maestri buddisti usano la parola attaccamento in modo diverso dalla psicologia, riferendosi alla tendenza dell’uomo ad aggrapparsi a ciò che ha (cose materiali, ma anche situazioni, ruoli, persone, abitudini), contrastando la natura impermanente della vita, che ci chiede di cambiare continuamente. Noi occidentali fatichiamo a comprendere l’attaccamento e il motivo per cui nel buddismo è la chiave dello sviluppo interiore. Invece, oggi in Italia basta dire di no allo stato e magicamente ad ogni passo incontriamo un’occasione per lavorare alla rinuncia degli attaccamenti, dato che all’improvviso crollano tutte le nostre certezze sociali. Ti sembra normale prendere la metro per muoverti in una metropoli come Roma, che si estende per più di mille chilometri quadrati, da domani non lo puoi più fare, niente. Ristoranti, concerti e cinema fai bene a dimenticarteli. Hai bisogno di comprare qualcosa che non sia classificato tra i beni di prima necessità, devi pagare un bollettino o ritirare dei soldi alla Posta, ti senti male e vuoi andare al pronto soccorso? Controlla quando hai fatto l’ultimo tampone, se il lasciapassare è scaduto non puoi entrare da nessuna parte. Pensi che il lavoro sia scontato? No, neanche quello.
Tutta la vita è condizionata dalla buona condotta sociale, quelle che sembravano libertà inalienabili ci vengono concesse solo se obbediamo. È a questo che Giulio dice no. È a questo che noi psicologi dobbiamo con forza dire no, perché sappiamo che i bambini crescono solo se vengono lasciati liberi di auto determinarsi e dobbiamo ammettere che il nostro lavoro perde completamente di senso se la revoca dei diritti umani fondamentali toglie all’uomo la possibilità di scegliere con coscienza. A questa triste situazione noi tutti possiamo dire no, perché la vita umana si basa sul libero arbitrio e la coscienza è un dono della Natura che l’uomo non può sottarci. Se lo fa, commette un abuso che reca danno a tutti.
[1] Francesco Montecchi (2005), Dal bambino minaccioso al bambino minacciato. Gli abusi sui bambini e la violenza in famiglia: prevenzione, rilevamento e trattamento, Milano, Franco Angeli.
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